130 nazionalità


Una domenica decido di visitare l'unico sito che pone Karaganda nelle guide turistiche: il museo del Karlag. Situato nel paesino di Dolinka, 45 km fuori città, è una villa in stile neoclassico con tanto di colonnato: ai bei tempi dell'Unione Sovietica era il centro direzionale e di smistamento, il punto nevralgico della più grande "isola" dell'arcipelago Gulag. Questa area di campi di lavoro forzato infatti era la più grande ed importante di tutta l'Unione Sovietica e copriva un'area estesa quanto la Francia.

Oppositori politici, prigionieri di guerra, minoranze bellicose o semplicemente "sospetti" o semplicemente persone antipatiche a questo o a quel dirigente venivano spediti in questi luoghi, accuratamente selezionati in base alle capacità (o all'incapacità) del detenuto e mandati a lavorare chi in miniera (carbone), chi nei campi (il secondo "granaio" dell'unione) chi nella siderurgia. Persino gli intellettuali venivano "forzati" a lavorare in laboratori medici o centri di sperimentazione chimica.

Sotto Stalin, milioni e milioni di persone sono passate di qui e sono morte per turni di lavoro massacranti, o per il freddo, milioni di persone di ogni nazionalità. Pian piano, dopo la morte del dittatore, piccole rivolte qua e buon senso degli amministratori là, hanno progressivamente trasformato le prigioni e le baracche in villaggi e case. Prima la riduzione dell'orario di lavoro a 8 ore, poi la concessione di vivere con la famiglia, infine la libertà religiosa, di movimento e di scelta del lavoro.
Con la caduta del muro di Berlino, specialmente i tedeschi (anche di seconda e terza generazione) sono tornati in massa in Europa, ma molti sono rimasti in quella che è la loro terra natia, seppure non si sentano "Kazaki". E così il Kazakhstan si può vantare di essere uno dei paesi più tolleranti delle minoranze e più integrati, ospitando ben 130 differenti nazionalità e gruppi etnici.

Lo sperimento nel mio piccolo anche io a scuola, dove tra gli studenti Kazakhi e Russi (i due maggiori gruppi) fanno capolino Coreani, Tedeschi, Tartari, Uiguri, Turkmeni, Ukraini, Ceceni, Uzbeki, Georgiani, Polacchi, Greci... Ognuno a casa sua conserva le tradizioni e la lingua di provenienza, parlando russo e vivendo laicamente al di fuori.
Dall'autobus scorgo nello stesso istante i campanili della chiesa protestante e i quattro minareti dell'enorme moschea, mentre camminando verso la scuola si vedono luccicare in fondo alla grande via Respubliska le dorate cupole a cipolla della chiesa ortodossa. A pochi frega qualcosa, dopo 100 anni di Leninismo la religione non riveste questa grande importanza, ma è vista come una tradizione ed un modo per non dimenticare e portare avanti la propria cultura, qualunque essa sia.

Il mio modo di non dimenticare le mie radici? TgLa7 e due spaghi al pomodoro: il mio dopolavoro.

до свиданя!

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