Malattia, portami via (magari anche no)


Tutto inizia una mattina di febbraio. Mi alzo con il mal di testa e la gola che duole. Ma come sempre non mi faccio intimorire da un malanno di stagione e vado a scuola per un lungo martedì di lezioni.

Fase 1: da zero a 100 in 5 secondi netti.

Arrivo al termine della giornata lavorativa che sono da raccogliere col cucchiaino da terra. La voce se n'è andata e il mal di testa è un martello pneumatico. Me ne vado a casa sapendo già che a meno di miracoli il giorno successivo sarà il mio primo giorno di malattia da quando faccio questo lavoro.
Il miracolo non avviene, e il giorno dopo mi sveglio stando peggio di prima e verso il tardo pomeriggio capisco che c'è qualcosa che non va. Chiamo Yulia a scuola e le chiedo di chiamare un medico per me. Arriva la sera con i dottori e sono lucido abbastanza da aprirgli la porta. Mi provano la febbre e il termometro è oltre i 41, anche se per tranquillizzarmi al momento mi dicono che è "quasi 40" (e stic...). Due punturone da cavallo e la febbre si abbassa. Prescrizioni, raccomandazioni e via.

Fase 2: Ignoranza.

Alcuni studenti si procurano non so come il mio indirizzo e vengono a casa a portarmi vagonate di frutta o marmellate. Nonostante le cure prescritte ogni giorno per quasi una settimana devo bombarmi di paracetamolo per tenere la febbre sotto i 39. I medici non sanno cosa sia. A quel punto, Yulia chiama sua madre, primario di pedagogia in un ospedale qui vicino, per farmi una valutazione. La signora è molto cortese e sembra immediatamente preoccupata. Come al solito "per tranquillizzarmi" non mi dicono un cazzo, ma il giorno successivo si va a fare esami del sangue e radiografie.

Fase 3: Mafia, raccomandazioni e conseguente imbarazzo.

Al laboratorio per gli esami del sangue c'è un'oretta di coda da fare, ma il mio studente Akhmet è lì dalle 6 del mattino ed è in procinto di entrare a farsi prelevare il siero. Ovviamente si offre di scambiare posizione in graduatoria. E non ne vuole sapere di un mio rifiuto. Così io entro subito e lui si spara un'altra ora in attesa.
Secondo stop mattutino, radiografie in un'altra clinica, dove lavora un'amica della madre di Yulia. Passo con nonchalance quelle che sembrano migliaia di persone in fila e in 10 minuti sono fuori con radiografia toracica e responso medico: polmonite. Ottimo.
Si va quindi diretti all'ospedale di Maykuduk dove lavora la madre. Mi fanno entrare subito, mi si presenta alla primaria di pneumologia e un gruppo di signore che se non avessero il camice bianco sembrerebbero più un gruppo di taglio&cucito o di cucina che medici mi visitano e decidono la terapia.
Bypassando qualunque burocrazia ogni mattina vengo prelevato dall'autista della scuola Vyecheslav e portato all'ospedale. Nella V.I.P. room, praticamente una stanza d'albergo con TV, Wi-fi, the e caffè, bagno privato (che divido per un paio di giorni con il sindaco di Karaganda) ogni giorno mi sparo una paio di flebone da 2 ore. Poi mi riportano a casa dove passo pomeriggio e notte leggendo o guardando la tv. La terza settimana si passa all'elettroterapia e alla stanza del sale, con solo una flebuccia da 30min di antibiotico.

Fase 4: Il rientro.

Finalmente dopo 3 settimane a casa torno a scuola. La mia acerrima nemica/coordinatrice è in ferie per due sattimane, ma sfortunatamente vengo a scoprire di alcuni cambiamenti che ha messo in atto in termini di programma che mi tratterranno qui più  alungo del previsto. Oltrea quello, altre sorpresine: una classe mi è stata tolta ed assegnata ad un'altra insegnante (2 studenti decidono di abbandonare la scuola del tutto per questo motivo) e il mio gruppo di Upper Intermediate, temporaneamente lasciato nelle "sapienti" mani di due nuove insegnanti (il cui livello d'inglese è inferiore agli studenti) non ha praticamente fatto nulla per un mese, lasciandomi in eredità mezzo corso da completare in 2 settimane prima dell'esame FCE. Ottimo.

Tutto questo passa in secondo piano pensando ai 41 e più e alle conseguenze che questa malattia avrebbe potuto avere. Sono vivo, sopravvissuto: e non è un'esagerazione. Direi che va bene così.


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